Ecco uno specchio, vedo riflessa la mia immagine ma, non trovo quello
che vorrei, è come se la mia persona fosse amputata in una qualche
parte. L'immagine ai miei occhi non appare completa altisonante, bensi
stonata come il din don d'una campana... questo è ciò che spesso
"pensano" i miei occhi.
Temo per me stesso, non trovo mai coincidenza tra quello che vorrei vedere e quello che la realtà mi suggerisce, non c'è corrispondenza tra la coerenza di me stesso (i concetti rappresentativi di sé, la mia immagine) e ciò che giunge alla mia percezione... soffro, la mancata coincidenza tra ciò che voglio e ciò che constato è dolore.
Noi umani viviamo di senso percepito, che giunge a noi come conferma di valore personale ad opera degli altri esseri umani, una sorta di reciprocità virtuale nella quale conquistiamo il nostro senso di sé, il quale è benessere, serenità e appagamento, altrimenti è angoscia, mancanza di senso personale e presenza di vuoto.
Il punto è, dunque, che abbiamo spesso la percezione di non essere ciò che vogliamo, la realtà percepita che è costruita da noi stessi, spesso non ci restituisce una'immagine personale coincidente con ciò che vorremmo essere. Per meglio capire, la nostra immagine, metaforicamente, può essere concepita come un puzzle composto da tessere... tessere concettuali rappresentative di sé, e che ogni tessera rappresenti una qualche caratteristica personale, ecco allora che vedremo dei vuoti, delle tessere mancanti... come se un qualche "pezzo" di noi non ci fosse più o non fosse più sufficientemente vivido da poter essere percepito... siamo, quindi, al vuoto, un vuoto che viene a farsi avanti, l’assenza di cui ho parlato precedentemente, quale risultante dell'interazioni non confermanti, confutanti, svalutanti, disconoscenti, ecc., che la realtà spesso ci offre.
Ma, la “realtà” percepita, quello vediamo e che consideriamo erroneamente assoluta, come ho già accennato, non è altro che un nostro prodotto fondamentalmente soggettivo. Essa è, pertanto, distorta dai nostri stessi modelli elaborativi, che alla luce del pregresso vissuto, tendono a costruire confermando le aspettative pregiudiziali su di sé (indipendentemente se queste siano buone o cattive, poiché la conoscenza personale, comunque sia, costituisce la base del nostro orientamento nel mondo, nonché la nostra d’identità personale), quale risultante conoscitiva proveniente dalle esperienze vissute in tutto il nostro passato. La “realtà”, pertanto, non è data, ma è costruita da noi, utilizzando schemi conoscitivi già presenti nella nostra mente. E, siccome essa è tendenzialmente progettata per automantenersi così come è, non potrà che agire spesso in termini autoingannevoli per tentare di far coincidere la realtà percepita esterna con quella interna. Un lavorio questo, che ha il fine di affievolire il dolore quale prodotto della discrepanza tra il dentro (la preferibile visione di se stessi) e il dentro rappresentativo del fuori (la “realtà” percepita, e da noi stessi arbitrariamente costruita).
Abbiamo capito, dunque, che siamo indotti dalla nostra genetica a catturare, selettivamente e in modo particolare, ciò che conferma la personale coerenza d'immagine personale, il pregresso conoscitivo (le estrapolazioni concettuali sulle esperienze vissute), e ciò fino, talvolta, ad autoingannarsi a tal punto da sfociare nella psicopatologia lieve o grave che sia. L’umano, in questo ultimo caso, si autoinganna così tanto da inventare ad hoc una “realtà” (il delirio) preconfezionata fittiziamente adattiva, vista come la soluzione più percorribile per far fronte alle perturbazioni ambientali, percepite troppo forti per il proprio sistema mentale, una “modalità adattiva” che, in relazione all’ambiente incontrato, costituisce prontamente la "soluzione", anche se psicopatologica, per far fronte alla sofferenza vissuta relativamente al proprio contesto.
Discrepanza tra il dentro e il dentro rapprentativo del fuori, autoinganno, egoismo genetico, sofferenza e adattamento tutti fattori che regolano, insieme a tantissimi altri, la nostra vita per la ricerca, ad ogni costo, d’un benessere psicofisico, geneticamente programmato, volto alla continuazione della specie!
Mazzani Maurizio
Temo per me stesso, non trovo mai coincidenza tra quello che vorrei vedere e quello che la realtà mi suggerisce, non c'è corrispondenza tra la coerenza di me stesso (i concetti rappresentativi di sé, la mia immagine) e ciò che giunge alla mia percezione... soffro, la mancata coincidenza tra ciò che voglio e ciò che constato è dolore.
Noi umani viviamo di senso percepito, che giunge a noi come conferma di valore personale ad opera degli altri esseri umani, una sorta di reciprocità virtuale nella quale conquistiamo il nostro senso di sé, il quale è benessere, serenità e appagamento, altrimenti è angoscia, mancanza di senso personale e presenza di vuoto.
Il punto è, dunque, che abbiamo spesso la percezione di non essere ciò che vogliamo, la realtà percepita che è costruita da noi stessi, spesso non ci restituisce una'immagine personale coincidente con ciò che vorremmo essere. Per meglio capire, la nostra immagine, metaforicamente, può essere concepita come un puzzle composto da tessere... tessere concettuali rappresentative di sé, e che ogni tessera rappresenti una qualche caratteristica personale, ecco allora che vedremo dei vuoti, delle tessere mancanti... come se un qualche "pezzo" di noi non ci fosse più o non fosse più sufficientemente vivido da poter essere percepito... siamo, quindi, al vuoto, un vuoto che viene a farsi avanti, l’assenza di cui ho parlato precedentemente, quale risultante dell'interazioni non confermanti, confutanti, svalutanti, disconoscenti, ecc., che la realtà spesso ci offre.
Ma, la “realtà” percepita, quello vediamo e che consideriamo erroneamente assoluta, come ho già accennato, non è altro che un nostro prodotto fondamentalmente soggettivo. Essa è, pertanto, distorta dai nostri stessi modelli elaborativi, che alla luce del pregresso vissuto, tendono a costruire confermando le aspettative pregiudiziali su di sé (indipendentemente se queste siano buone o cattive, poiché la conoscenza personale, comunque sia, costituisce la base del nostro orientamento nel mondo, nonché la nostra d’identità personale), quale risultante conoscitiva proveniente dalle esperienze vissute in tutto il nostro passato. La “realtà”, pertanto, non è data, ma è costruita da noi, utilizzando schemi conoscitivi già presenti nella nostra mente. E, siccome essa è tendenzialmente progettata per automantenersi così come è, non potrà che agire spesso in termini autoingannevoli per tentare di far coincidere la realtà percepita esterna con quella interna. Un lavorio questo, che ha il fine di affievolire il dolore quale prodotto della discrepanza tra il dentro (la preferibile visione di se stessi) e il dentro rappresentativo del fuori (la “realtà” percepita, e da noi stessi arbitrariamente costruita).
Abbiamo capito, dunque, che siamo indotti dalla nostra genetica a catturare, selettivamente e in modo particolare, ciò che conferma la personale coerenza d'immagine personale, il pregresso conoscitivo (le estrapolazioni concettuali sulle esperienze vissute), e ciò fino, talvolta, ad autoingannarsi a tal punto da sfociare nella psicopatologia lieve o grave che sia. L’umano, in questo ultimo caso, si autoinganna così tanto da inventare ad hoc una “realtà” (il delirio) preconfezionata fittiziamente adattiva, vista come la soluzione più percorribile per far fronte alle perturbazioni ambientali, percepite troppo forti per il proprio sistema mentale, una “modalità adattiva” che, in relazione all’ambiente incontrato, costituisce prontamente la "soluzione", anche se psicopatologica, per far fronte alla sofferenza vissuta relativamente al proprio contesto.
Discrepanza tra il dentro e il dentro rapprentativo del fuori, autoinganno, egoismo genetico, sofferenza e adattamento tutti fattori che regolano, insieme a tantissimi altri, la nostra vita per la ricerca, ad ogni costo, d’un benessere psicofisico, geneticamente programmato, volto alla continuazione della specie!
Mazzani Maurizio
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