Aspetto che la realtà cambi, pongo la mia attenzione la dove le cose, le rappresentazioni non ci sono, sono circondato e invaso d'assenza, non mi accorgo di ciò che sono e che ho.
Istintivamente la mia attenzione si volge su ciò che non c'è-- una risposta adattiva per indurci a fare qualcosa per ottenere ciò che ci manca-- ma spesso accade che alcuni meccanismi selezionati minuziosamente dall'evoluzione si ipertrofizzino, trasformandosi, paradossalmente, da adattivi in disadattivi: un'ansia che attivandosi troppo, si trasforma, da utile informazione, in un qualcosa di paralizzante, un evitamento occasionale utile all'adattamento, che divenendo abitudinario, si trasforma, costituendosi, nel tempo, quale unica risposta disponibile alle perturbazione ambientali troppo forti per tale organizzazione mentale, in disadattivo.
Porre esageratamente e ossessivamente l'attenzione su ciò che ci manca, è la risposta ipertrofica di un meccanismo adattivo finalizzato a rendere la persona attenta all'assenza che relativamente la distingue, che muta in disadattivo. Tale azione, costituendosi con la patologica attenzione su ciò che non c'è, di fatto, fa si che l'individuo che ne è caratterizzato viva una sorta di perenne assenza.
Egli, dunque, avendo l'attenzione sempre coartata su ciò che non gli piace di sè o su ciò che non ha, è, pertanto, costretto a vivere la sensazione di vuoto che è perdita di ciò che egli è... una sorta di perdita di se stesso, proprio, dovuta all'ostinata e circoscritta attenzione patologicamente orientata là dove egli non c'è.
E' importante, fondamentalmente sano, dunque, riconquistare il dominio sulla propria attenzione, cercando di spostarla su ciò che si è e si ha, contrastando, così, l'atteggiamento coattivo che ci fissa sulla presunta assenza. Una volontaria azione questa, volta a contrastare l'inerzia patologica, che automaticamente conduce la nostra attenzione su ciò che vorremmo avere o essere, impedendoci, così, di godere di ciò che abbiamo e siamo.
Riguadagnare il proprio esistere annullato, sminuito dalla "svista attentiva" coartata dall'assenza, significa accettarsi nei propri limiti (l'assenza), e capire che la dimensiome umana è proprio la sua definizione, e definizione significa rappresentazioni di sè costituite non da "tutto" ma solo dalla "parte" e, quindi, da qualità circoscritte... di fatto, la nostra ragion d'essere è costituita dai nostri limiti o confini che contengono, proprio, le nostre qualità che non sono altro ciò che si è. Spostare l'attenzione su ciò che si è e si ha, è azione fondamentale per percepirsi e accorgersi del proprio senso e significato. La coercizione attentiva su ciò che non abbiamo (oggetti, qualità, caratteristiche rappresentative personali, ecc), dunque, non può che produrre ansia e angoscia per la perdita conseguente di sé.
Il punto è proprio questo, un tale atteggiamento mentale è disadattivo, disfunzionale e psicopatologico in quanto, impedendo alla persona di percepire ciò che è e che ha, crea, inevitabilmente, senso di vuoto e mancanza di sé. Tale sensazione costituendo una sorta di "diminuzione di percezione di sé", immancabilmente annebbia, inoltre, la lucidità nonché l'efficacia, dell'individuo, ad elaborare eventuali soluzioni finalizzate a colmare, costruttivamente, l'assenza stessa che lo caratterizza.
Il senso di vuoto è tale da paralizzarlo su posizioni d'assenza, che lo coartano a non accorgersi, dunque, di ciò che ha e, soprattutto, di ciò che è... quale unica realtà d'esistenza!
Maurizio Mazzani
venerdì 29 aprile 2011
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